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Semiotropie. Eredità di Barthes
A cura di Giuseppe Crivella




Dalla parola alla scrittura*
di Roland Barthes

(Traduzione di Giuseppe Crivella)

16 febbraio 2016




Noi parliamo, veniamo registrati, segretarie diligenti ascoltano i nostri discorsi, li ripuliscono, li trascrivono, vi mettono la punteggiatura, ne estraggono un primo script [1] che ci sottopongono perché noi lo ripuliamo di nuovo prima di destinarlo alla pubblicazione, al libro, all’eternità. Non è questo il maquillage riservato a un cadavere? La nostra parola, noi la imbalsamiamo, come una mummia, per farla eterna. Perché è necessario durare un po’ più della propria voce, è necessario, per la commedia della scrittura, iscriversi da qualche parte.

Tale iscrizione in che modo la paghiamo? Che cosa ci rimettiamo? Cosa guadagniamo?


La trappola della scrizione [2]

Ecco da principio a grandi linee ciò che cade nella trappola della scrizione (preferiamo questo termine, per quanto sia pedante, a quello di scrittura: la scrittura non è per forza il modo di esistenza di ciò che è scritto). In primo luogo noi perdiamo, è evidente, qualcosa in innocenza; non che la parola sia in se stessa fresca, naturale, spontanea, veridica, espressiva di una sorta di interiorità pura; al contrario la nostra parola (soprattutto in pubblico), è immediatamente teatrale, essa prende in prestito i suoi giri (nel senso stilistico e ludico del termine) da tutto un insieme di codici culturali e oratori; la parola è sempre tattica; ma passando allo scritto è l’innocenza stessa di questa tattica, percepibile a chi sa ascoltare, esattamente come altri sanno leggere, che noi rendiamo felpata; l’innocenza è sempre esposta; riscrivendo ciò che abbiamo detto noi ci proteggiamo, ci sorvegliamo, ci censuriamo, biffiamo le nostre stupidaggini, le nostre sufficienze (o insufficienze), le nostre fluttuazioni, le nostre ignoranze, le nostre compiacenze, il nostro essere in panne (perché, parlando, noi non avremmo il diritto, a proposito di questo o di quell’argomento avanzato dal nostro interlocutore, di rimanere a secco?), in breve tutta la varietà del nostro immaginario, il gioco personale del nostro io; la parola è pericolosa perché è immediata e non può riprendersi (a meno che non ricorra al supplemento di una ripresa esplicita); la scrizione invece ha del tempo dinanzi a essa; ha quel tempo che è necessario per poter girare sette volte attorno alla lingua in bocca (mai consiglio proverbiale è stato più illusorio); scrivendo ciò che abbiamo detto perdiamo (o conserviamo) tutto ciò che separa l’isteria dalla paranoia.

Altra perdita: il rigore delle nostre transizioni. Spesso noi «filiamo» il nostro discorso a basso prezzo. Tale «filato», questo flumen orationis che disgustava Flaubert, è la consistenza della nostra parola, la legge che essa stessa si impone; quando noi parliamo, quando noi «esponiamo» il nostro pensiero man mano che il linguaggio gli si presenta, noi crediamo bene di esprimere ad alta voce le inflessioni della nostra ricerca; siccome noi lottiamo a cielo aperto con la lingua, siamo sicuri che il nostro discorso «si rapprenda», «assuma consistenza» e che ogni stadio del nostro discorso prenda la sua legittimità dallo stadio anteriore; in una parola, noi vogliamo una nascita diretta e noi svolgiamo i segni di questa filiazione regolare; da qui la nostra parola pubblica, i tanti /ma/ e i tanti /quindi/, tante riprese e denegazioni esplicite. Non è che queste piccole parole abbiano un grande valore logico; sono, se vogliamo, degli espletivi del pensiero. La scrittura spesso ne fa economia; essa osa l’asindeto, questa figura tagliente che sarebbe insopportabile per la voce quanto una castrazione.

Ciò comporta un’ultima perdita, inflitta alla parola dalla sua trascrizione: quella di tutti quei cascami del linguaggio — del tipo /per intenderci/ — che i linguisti riferirebbero senza dubbio a una delle grandi funzioni del linguaggio, alla funzione fatica o di interpellanza; quando noi parliamo noi desideriamo che il nostro interlocutore ci ascolti; noi risvegliamo allora la sua attenzione tramite delle interpellanze vuote di senso (tipo /allora, allora, mi segue?/); molto modeste, queste formule, queste espressioni, hanno qualcosa di discretamente drammatico: sono dei richiami, delle modulazioni – direi quasi, pensando agli uccelli, dei canti — attraverso cui un corpo cerca un altro corpo. È questo canto – goffo, piatto, ridicolo allorché è scritto — che si spegne nella nostra scrittura.

Capiamo mediante queste osservazioni che ciò che si perde durante la trascrizione è molto semplicemente il corpo – almeno questo corpo esteriore (contingente) che, nella situazione del dialogo, lancia verso un altro corpo, altrettanto fragile (o agitato, inquieto), dei messaggi intellettualmente vuoti, la cui sola funzione è in qualche modo di abbordare l’altro (addirittura nel senso prostitutivo del termine) e di mantenerlo nel suo stato di compagno.

Trascritta, la parola cambia destinatario e quindi soggetto, poiché non vi è soggetto senza Altro. Il corpo, sebbene sempre presente (non vi è linguaggio senza corpo) cessa di coincidere con la persona o, per meglio dire, con la personalità. L’immaginario del parlante muta spazio: non si tratta più di domande, di richiami, di un gioco di contatti; si tratta di istallare, di rappresentare una discontinuità articolata, ovvero, nei fatti, una argomentazione. Questo nuovo progetto (esasperiamo qui volontariamente le opposizioni) è leggibile molto bene nei semplici incidenti che la trascrizione aggiunge (poiché essa non ne ha fisicamente i mezzi) alla parola (dopo averle tolto tutte le scorie che abbiamo detto): da subito dei veri perni logici: non si tratta più di quei minuti legami (/ma/, /quindi/) di cui la parola si serve per colmare i suoi silenzi; si tratta di rapporti sintattici pieni di veri semantemi logici (tipo /benché/, /in modo che/); altrimenti detto, ciò che la trascrizione permette e sfrutta è una cosa che ripugna al linguaggio parlato ed è ciò che si chiama in grammatica subordinazione: la frase diventa gerarchica, si sviluppa in essa, come in una messa in scena classica, la differenza dei ruoli e dei piani; socializzandosi (poiché passa a un pubblico più vasto e meno noto) il messaggio ritrova una struttura d’ordine; delle «idee», entità appena afferrabili nell’interlocuzione, in cui esse sono senza sosta sopravanzate dal corpo, sono messe qui in prima linea, lì invece in fondo e come in contrasto; questo nuovo ordine – anche se l’emergenza è sottile – si serve di due artifici tipografici, che vanno ad aggiungersi ai «guadagni» della scrittura: la parentesi, che non esiste nella parola e che permette di segnalare con chiarezza la natura secondaria o digressiva dell’idea e la punteggiatura che, lo sappiamo, divide il senso (e non la forma, il suono).

Si manifesta così nello scritto un nuovo immaginario che è quello del «pensiero». Ovunque vi sia concorrenza tra la parola e lo scritto, lo scritto vuol dire in un certo modo: io penso meglio, in maniera più salda; io penso meno per voi, io penso più per la «verità». Senza dubbio l’Altro è sempre qui, sotto la figura anonima del lettore; anche il «pensiero» messo in scena attraverso le condizioni dello script [3] (per quanto discrete, apparentemente insignificanti esse possano essere) resta tributaria dell’immagine di me che io voglio dare al pubblico; più che di una filiera inflessibile di dati e di argomenti, si tratta di uno spazio tattico di proposizioni, ovvero, in fin dei conti, di posizioni. Nel dibattito di idee, molto sviluppato oggi grazie ai mezzi di comunicazione di massa, ogni soggetto è condotto a situarsi, a distinguersi, a porsi intellettualmente, cioè politicamente. Troviamo qui senza dubbio la funzione attuale del «dialogo» pubblico; contrariamente a ciò che accade nelle altre assemblee (giudiziaria o scientifica, per esempio), persuadere o strappare una convinzione non sono più le vere poste in gioco di questi nuovi protocolli si scambio: si tratta piuttosto di presentare al pubblico, e poi al lettore, una sorta di teatro degli impieghi intellettuali, una messa in scena delle idee (tale riferimento allo spettacolo non intacca in nulla la sincerità o la oggettività dei discorsi scambiati, il loro interesse didattico o analitico).

Questa è, mi sembra, la funzione sociale di questi Dialoghi [4]: tutti insieme formano una comunicazione di secondo grado; una «rappresentazione», lo scivolamento spettacolare di due immaginari: quello del corpo e quello del pensiero.


La scrittura non è lo scritto

Resta possibile, è chiaro, una terza pratica di linguaggio, assente secondo statuto da questi Dialoghi: la scrittura propriamente detta, quella che produce testi. La scrittura non è la parola e questa separazione ha ricevuto negli ultimi anni una consacrazione teorica: ma essa non è neppure lo scritto, la trascrizione; scrivere non è trascrivere. Nella scrittura, ciò che è troppo presente nella parola (in un modo isterico) e troppo assente dalla trascrizione (in un modo castrante), ovvero il corpo, ritorna ma secondo una via indiretta, misurata, e per dirlo chiaramente giusta, musicale, per il godimento e non per l’immaginario (l’immagine). È in fondo questo viaggio del corpo (del soggetto) attraverso il linguaggio che le nostre tre pratiche (parola, scritto, scrittura) modulano, ciascuno a suo modo: viaggio difficile, tortuoso, variato, a cui lo sviluppo della radio-diffusione, ovvero di una parola nello stesso tempo originale e trascrivibile, effimera e memorabile, dà oggi un interesse notevole. Sono persuaso che i Dialoghi qui trascritti non valgono solo per la massa di informazioni, di analisi, di idee e di contestazioni che vi si dispiegano coprendo il campo molto vasto della attualità intellettuale e scientifica; essi hanno anche il valore di una esperienza differenziale dei linguaggi: la parola, lo scritto e la scrittura impegnano ogni volta un soggetto separato e il lettore, l’ascoltatore devono seguire questo soggetto diviso, differente a seconda che esso parli, trascriva o enunci.


* Su La Quinzaine littéraire, 1 marzo 1974. Cfr OC IV, 537-341.

[1] Lemma presente nel testo francese.
[2] Nel testo di Barthes /scription/ [N.d.T.].
[3] Cfr. nota 1.
[4] Questo testo doveva servire come prefazione a una prima serie di Dialogues prodotti da Roger Pillaudin per France Culture e pubblicati dalle Presses Universitaires di Grenoble [N.d.T.].



Barthes, Sollers e Ivankow al colloque di Cesirisy-la-Salle su Bataille (1974)

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